lunedì 18 luglio 2011

Alla partita come alla guerra

Delije è un termine che corrispondente a Eroi e nasce da un canto serbo di epoca ottomana che recitava: “gli eroi iniziano la danza di guerra e il rumore si ode a Istanbul”. Identifica anche i tifosi della Stella Rossa di Belgrado, convinti di aver combattuto la prima battaglia nella guerra dei Balcani.

È il 13 maggio 1990, la Stella Rossa affronta la Dinamo Zagabria. Gli ultras croati sono i Bad Blue Boys, BBB, che prendono il nome da Bad Boys, un film del 1983 con Sean Penn ambientato tra la galassia delle bande giovanili americane.

La loro reputazione di tifosi violenti cresce. Ma, come scrivono sul loro sito, “non importa prendere botte se è per provare l’amore per il club. La Dinamo era ed è qualcosa di sacro”. Talmente sacro che hanno edificato un altare dietro una delle tribune, per i tifosi scomparsi.

Fuori dallo stadio Maksimir, scrive Jonathan Wilson in Behind the curtain, “c’è una statua che raffigura un gruppo di soldati. Sul piedistallo è scritto: Ai tifosi di questo club, che hanno iniziato contro la Serbia su questo campo il 13 maggio 1990”.

Una settimana prima si erano concluse le elezioni, che si svolsero con un sistema maggioritario che favoriva in modo esponenziale il partito che prendeva più voti, che avevano visto trionfare l’HDZ, un partito conservatore di destra, profondamente nazionalista, che predicava valori basati sul Cattolicesimo mescolati con tradizioni storiche e culturali, in genere, che nella Jugoslavia comunista non potevano esprimersi al meglio (molti ex comunisti passarono all'HDZ piuttosto che al partito erede del partito comunista cha alle prime elezioni democratiche in Croazia cambiò il nome in Partito dei cambiamenti Democratici, considerando che la Lega dei Comunisti Croati aveva deciso di passare al sistema democratico di propria volontà senza che vi fossero forti pressioni di piazza). Lo scopo era di conseguire l'indipendenza dello stato croato.

Franjo Tudjman, presidente del Partizan negli anni Cinquanta, diventa presidente della Croazia. Un anno dopo la Dinamo Zagabria cambia nome in HASK Gradanski (che deriva dalle due squadre dall’unione delle quali era natala Dinamo nel 1945) e nel 1993 cambia ancora in NK Croazia Zagabria. Tudjman si oppone al ritorno al nome Dinamo perché considerato troppo comunista (nel mondo sovietico, Dinamo era il nome che identificava le squadre della polizia). I tifosi della squadra, i Bad Blue Boys, sostengono che attraverso quel nome hanno difeso l’orgoglio croato nella Jugoslavia comunista. Il club torna alla vecchia denominazione nel 1999, due mesi dopo la morte di Tudjman e la sconfitta dell’HDZ alle elezioni.

Il suo uso della sahovnica, l’emblema a scacchi bianchi e rossi un tempo simbolo degli Ustase, i croati fascisti che avevano collaborato con i Nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, sembrava una provocazione. Non ha mai nascosto il suo nazionalismo: “Grazie a Dio mia moglie non è ebrea né serba” ha detto una volta.
Anche la Repubblica Serba è governata da un leader rampante, nazionalista e fortemente estremista: Slobodan Milosevic.

Alle prime elezioni libere del 7 maggio 1990 proprio l’HDZ ottiene una larghissima maggioranza parlamentare, al termine di una campagna elettorale impostata su toni di feroce contrapposizione nei confronti della Repubblica Serba, di fatto la nazione accentratrice, governata a propria volta da un leader rampante ugualmente nazionalista ed estremista: Slobodan Milošević.

In questa atmosfera già surriscaldata al limite del parossismo, il 13 maggio si sfidano il simbolo dell’orgoglio croato, la Dinamo, e l’immagine del nazionalismo serbo, la Stella Rossa di Belgrado. La violenza è inevitabile.
Al di là delle molte versioni, la violenza era premeditata: i Delije conservano massi, usano acido per tagliare le barriere di sicurezza. Ma, come ricorda il giornalista americano Franklin Foer in How football explains the world, i Bad Blue Boys fanno praticamente lo stesso.

Sembra che i Delije abbiano portato anche una serie di targhe serbe che hanno attaccato sopra quelle croate sulle auto locali spingendo i BBB a distruggerle.

Il capo di Delje, ancora non confluiti nei gruppi paramilitari delle Tigri (erano a Vukovar, nel 1991, quando centinaia di croati furono presi di forza dagli ospedali, trascinati nei campi e uccisi), è Željko Ražnatović, ma tutti lo chiamano col nome di battaglia: Arkan.

Chi è Arkan
Figlio ribelle di un colonnello dell’Aeronautica di Tito, viene arrestato per la prima volta a 17 anni e condannato a tre anni di detenzione in una prigione minorile. Uscito di prigione, Arkan si sposta in Europa occidentale e inizia una “carriera” come rapinatore di banche. Viene arrestato in Belgio, Olanda, Germania ma riesce sempre a scappare. Diventa una figura mitica: una volta, per far liberare un suo complice, si presenta nell’aula di tribunale e punta una pistola in faccia al giudice. Noto, contrariamente a molti altri criminali, per essere astemio, nel 1986 torna a Belgrado: apre una pasticceria di fronte allo stadio Marakana, compra una Cadillac rosa e lavora più apertamente di prima per il Servizio di Sicurezza jugoslavo (UDBA).

Nello stesso anno i membri dell’Accademia serba delle Arti e delle Scienze pubblicano un memorandum per esprimere la loro insoddisfazione verso la posizione riservata ai serbi nella costituzione jugoslava e Slobodan Milosevic diventa il leader del Partito Comunista serbo. Un anno dopo Milosevic è presidente della Serbia. I tifosi, che avevano portato con onore immagini di Vuk Draskovic, scrittore dissidente e leader del Movimento di Rinnovamento Serbo, appoggiano la sua politica. Milosevic, però, conosce i rischi delle loro anarchiche passioni e chiede a Jovica Stanisic, allora capo della sicurezza dello stato, di convincere Arkan a controllare la violenza dei tifosi della Stella Rossa. Arkan capisce che la Stella Rossa può essere per lui quello che il Real Madrid era stato per Francisco Franco: una forza di potere e di influenza nella società.

Abbiamo allenato i tifosi senza le armi” ha detto Arkan, secondo quanto rivela Jonathan Wilson in Behind the Curtain. “Ho insistito fin dall’inizio sulla disciplina. Ai nostri tifosi piaceva bere, fare casino. Io ho fermato tutto questo, immediatamente. Li ho convinti a tagliarsi i capelli, a radersi tutti i giorni, a smettere di bere”. Così una banda di hooligans è diventata i Delije, uno dei gruppi di tifosi più temuti d’Europa.

Ma non fa solo questo. Controlla la vendita di biglietti, organizza le trasferte e, se necessario, minaccia gli arbitri. Fa costruire una casa in marmo e vetro fumé con antenne paraboliche sul tetto proprio di fronte allo stadio. E inizia anche a organizzare le Tigri, i suoi gruppi nazionalisti paramilitari per andare a combattere in Kosovo e Croazia. I suoi “soldati” si danno al saccheggio, costituiscono compagnie monopolistiche per il commercio di alcol e sigarette e così guadagnano più di gran parte dei cittadini serbi. Le Tigri arrivano in maggioranza dalla curva nord del Marakana, cui si aggiungono molti tifosi del Partizan, i Becchini.

Un tifoso della Stella Rossa, Dejan Vukelic, ha raccontato a Jonathan Wilson che viveva in Cina all’epoca della prima guerra dei Balcani. Decide però di tornare in patria per unirsi all’esercito jugoslavo ma lo trova in pieno caos. A quel punto viene a sapere dei campi di allenamento di Arkan. “Da nazionalista credevo fosse mio dovere essere lì. All’inizio la disciplina e l’ordine mi hanno impressionato. Era essenziale l’enfasi sulla pulizia etnica dei croati e dei musulmani dal territorio serbo. Ma non sono stato testimone delle atrocità o dei comportamenti criminali di cui parla la stampa occidentale

Quel giorno a Zagabria...
Al Maksimir, i Bad Blue Boys non vogliono essere da meno degli odiati nemici e iniziano a intonare una serie di cori di provocazione per preparare il terreno alla rissa. Quando dagli altoparlanti l’annunciatore comincia a recitare le formazioni, la situazione degenera. La polizia non può fare nulla per contenere i tifosi serbi che scavalcano le deboli recinzioni e invadono l’anello superiore della curva distruggendo tutto quello che incontrano. La milicija li guarda lanciare in aria cartelloni e sedie di plastica mentre qualche temerario tifoso croato tenta di sfidarli.

Arrivano nel settore belgradese, ma sono in inferiorità numerica e negli scontri corpo a corpo i calci e i pugni presi sono più di quelli dati. Ma altri si aggiungono: rompono le recinzioni e invadono in massa il campo. La “guerra in miniatura” si sposta presto dagli spalti in campo. Molti giocatori scappano negli spogliatoi. Non Zvonimir Boban, che si avventa su un poliziotto e gli grida: “Vergognatevi. State massacrando i bambini”. L’agente lo colpisce due volte urlando: “Brutto figlio di puttana. Sei come tutti gli altri!” A quel punto Boban reagisce d’istinto e con una ginocchiata gli frattura la mascella. Per la Croazia, lui diventa un eroe mentre il poliziotto è il simbolo del declino dell’oppressione serba. Anche se quel poliziotto non era nemmeno serbo, ma un bosniaco musulmano che anni dopo dirà di perdonare il gesto di Boban e di comprenderne le ragioni.

Anni dopo, Boban dirà: “Ero un volto pubblico, ma ero preparato a rischiare vita carriera e tutto quello che la fama mi avrebbe potuto portare per una causa ideale, la causa croata”. Boban viene sospeso dalla Federazione jugoslava per sei mesi ed è costretto a saltare i Mondiali del 1990. La sua foto mentre colpisce il poliziotto fa il giro del mondo. Per dieci giorni deve scappare, cambia rifugio ogni notte per evitare i rastrellamenti della polizia. Ma viene comunque arrestato e processato. “Ma al processo tentarono l' ultimo sporco imbroglio presentando una videocassetta dell' incidente contraffatta. Era stata montata in modo che io sembrassi l' aggressore e il poliziotto la vittima. Mi diedi da fare, recuperai la cassetta originale presso una Tv tedesca e riuscii a cavarmela smascherando l' imbroglio”.

Zvone viene squalificato per nove mesi (ridotti a 4) e deve saltare Italia ‘90, l’ultima manifestazione calcistica cui partecipa la Jugoslavia unita. Il 3 giugno 1990, a Zagabria, la nazionale jugoslava affronta l’Olanda nell’ultima amichevole pre-mondiale: il pubblico si schiera per Van Basten e compagni e urla un solo nome, quello di Zvonimir Boban. Senza mai nascondere la sua fede nazionalista e la sua vicinanza al presidente della repubblica Franjo Tudjman, che considera il più grande eroe della storia croata, Boban ha improntato la sua leadership nella nazionale attraverso una innegabile impronta politica. “Facendo bene il mio mestiere” ha detto “posso essere utile come chi ha combattuto al fronte”.

Il suo calcio al poliziotto scatena l’inferno. I più temerari tra i BBB riescono ad arrivare nel settore opposto del Maksimir e rubare gli striscioni della tifoseria della Stella Rossa, che agitano in aria come insegne di guerra. A questo punto anche la Milicija è costretta a passare in azione. Estraggono i manganelli, lanciano i lacrimogeni, fanno entrare i vecchi veicoli anti-incendio. Riescono a domare, almeno un po’, i tremila Delije ma non i più numerosi Bad Blue Boys che si danno alla guerriglia dentro e fuori lo stadio.

La partita, alla fine, non si gioca. Tra i settanta minuti di battaglia dentro lo stadio e le tre ore per le strade della città, si contano 59 tifosi e 79 agenti feriti, 17 tram e decine di auto devastate, 132 tifosi arrestati.
L' agenzia di stampa jugoslava Tanjug racconta che i tifosi hanno eretto barricate nelle strade, devastato un' auto della polizia, tre tram e hanno incendiato una jeep. La polizia è accusata di non essere intervenuta subito con decisione. Tifosi e giocatori serbi sono rimasti assediati dagli avversari nello stadio e hanno quasi distrutto l' impianto, mentre diverse centinaia di tifosi della Dinamo si riuniscono nella piazza centrale di Zagabria, cantano l' inno nazionale croato e inneggiano a Franjo Tudjman. I giornali jugoslavi cercano di minimizzare la portata nazionalista degli scontri e puntano il dito contro gli animi accessi di calciatori e tifosi. I giornali accusano le autorità di non essere riuscite prevenire gli incidenti mentre i politici si affannano a negare la matrice etnica degli scontri, mentre il quotidiano di Belgrado Politika si è limitato a scrivere che questo è uno dei momenti più amari della storia del calcio jugoslavo.

Ma per Neven Andjelic, autore di Bosnia-Erzegovina: la fine di un’eredità, “è stato il match più importante nella storia della Jugoslavia. Ha implicazioni politiche ed è un segno chiaro che anticipa la violenza e la guerra che presto sarebbero arrivate”.

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