giovedì 28 luglio 2011

La seconda scoperta dell'America


Da noi si dice che un uruguaiano a cui non piace il fútbol non è un vero uruguaiano” scrive Osvaldo Heber Lorenzo, uno dei giornalisti sportivi più noti del Paese. Il calcio è nel dna degli uruguayani, come dimostra la storia della famiglia di Diego Forlan: il nonno Juan Corazzo ha alzato la Copa America, il padre Pablo ha alzato la Copa America, Cachavacha ha alzato la Copa America. Una coppa speciale, la numero 15, che fa dell’Uruguay la nazionale più titolata del continente, più del Brasile, più dell’Argentina. Ma questa non è la storia della famiglia Forlan. È la storia di come tutto ebbe inizio. La genesi di un movimento che ha il calcio nel sangue.

Eravamo giovani, giocavamo a calcio, eravamo invincibili”. È il ritratto firmato Hector Scarone, la stella di quella nazionale, di un gruppo straordinario, un gruppo di ragazzi “normali” che in sette anni ha scritto pagine eccezionali e portato una nazione di tre milioni di abitanti sulla cima del mondo.

Il calcio arriva in Uruguay, come in Argentina, portato dagli inglesi, introdotto da Henry Castle Ayre, che gestiva la English High School di Montevideo. Nella capitale, William Leslie Poole fonda il primo club, l’Albion FC. La prima partita di cui si abbia notizia si è giocata nel 1881, tra il Montevideo Rowing Club e il Montevideo Cricket Club.

Il 14 maggio 1899 nasce il Nacional Montevideo, dalla fusione del Montevideo Athletic Club e dell’Uruguay Athletic Club. La riunione si tiene a casa del dottor Ernesto Caprari, che sceglie il nome della squadra e propone di giocare con una maglia rossa e con i colori dell’eroe nazionale José Gervasio Artigas. È un club che si propone di essere fortemente nazionale, il primo segno del superamento dell’influenza inglese, che agli inizi aveva imposto di non giocare di domenica perché in Inghilterra si gioca di sabato, il segno del nuovo calcio che inizia a prendere piede sul Rio de la Plata. Uno stile che, anche grazie all’influenza degli immigrati italiani e spagnoli, sacrifica disciplina e forza fisica in nome della sensualità e del talento. Un calcio che si sviluppa negli spazi stretti dei quartieri poveri di Buenos Aires e di Montevideo.

Scrive Eduardo Galeano: “Come il tango, il calcio crebbe partendo dalle periferie...Nei recinti, nei vicoli e sulle spiagge, i ragazzi creoli e i giovani immigrati improvvisavano partite con palloni fatti di vecchie calzette riempite di pezza o di carta...L’esperanto del pallone univa i poveri del posto con i braccianti che avevano attraversato il mare da Vigo, Lisbona, Napoli o la Bessarabia...Negli stadi di Buenos Aires e Montevideo stava nascendo uno stile. Una maniera particolare di giocare al calcio si stava imponendo, proprio mentre un ballo particolare si affermava nei patii dei milongueros. I ballerini disegnavano filigrane, avvinghiandosi su una sola mattonella, e i calciatori inventavano un loro linguaggio nel minuscolo spazio nel quale la palla non era calciata ma trattenuta e posseduta, come se i piedi fossero mani che intrecciavano il cuoio. E nei piedi dei primi virtuosi creoli nacque il toque: la palla suonata come fosse una chitarra, fonte di musica”.

Erano anni in cui il Mondiale ancora non esisteva, in cui si giocava per rabbia o per amore, in cui le Olimpiadi erano il traguardo massimo per un calciatore.

L’Uruguay ha dato un contributo essenziale per la nascita del CONMEBOL. Il primo a proporre la fondazione di una confederazione sudamericana è infatti Hector Gomez, presidente dei Montevideo Wanderers, nel 1912, che ha dato un impulso determinante anche alla creazione della Copa America e ha spinto il sub-continente al vertice del calcio mondiale. Una scalata che inizia nel Campionato Sudamericano del 1923, a Montevideo, dal 29 ottobre al 2 dicembre. Partecipano le quattro maggiori potenze calcistiche del continente: Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. Ognuna sfida tutte le altre. Chi fa più punti vince e si qualifica per le Olimpiadi dell’anno successivo.

La Celeste apre contro il Paraguay e vince 2-0 con i gol di Scarone e di Pedro Petrone. Nella seconda partita affronta il Brasile: altra vittoria, altro 2-0, segnano Petrone e l’altra stella offensiva della nazionale, Pedro Cea che con Petrone aveva inventato un modo nuovo di attaccare, fatto di scambi stretti e di movimenti continui. Una strategia tutta rioplatense che tutti cominciano a chiamare la parete. Nell’ultima partita, contro l’Argentina, il gioco è più nervoso e violento. Ma la Celeste, davanti a 22 mila spettatori vince ancora, con le reti di Petrone e Somma.

È una delle prime manifestazione del carattere della Celeste, che passa sotto l’etichetta di garra charrua, un carattere nazionale fatto di spirito combattivo e coraggio, “un istinto di sopravvivenza che in campo cementa una squadra nella sua definizione collettiva”, come l’ha definito lo scrittore Astolfo Cagnacci. Un modo di essere che non è solo dei giocatori della nazionale. Scrive Waldemar Victorino, che ha indossato la maglia della Celeste negli anni ‘70, nella Storia del calcio: “La garra charrua è la nostra idiosincrasia. Ce l’abbiamo tutti, non solo i calciatori. Vogliamo spingerci più in là, arrivare primi. Abbiamo sempre amato le sfide difficili e per noi il calcio era una sfida difficile”.

Il primo trionfo olimpico
Quella che arriva a Parigi è una nazionale di operai, di calciatori bohemien che scendevano in campo per il piacere del gioco e ricevevano poco dal calcio in cambio della loro passione, se non la felicità di giocare e di vincere. Pedro Arispe era operaio nel settore della macellazione della carne, Jose Nasazzi tagliava lastre di marmo. “Perucho” Petrone vendeva verdura, Pedro Cea distribuiva ghiaccio, Jose Leandro Andrade era un lustrascarpe che suonava al carnevale. Arrivano in Francia viaggiando in terza classe, e solo grazie all’incrollabile convinzione del dottor Attilio Narancio, talmente fiducioso delle potenzialità della nazionale da ipotecare la casa per trovare i fondi necessari alla trasferta. Una volta arrivati si muovono su mezzi di fortuna, forzati a giocare una partita dopo l’altra in cambio di cibo o di un posto per dormire. Durante la preparazione, vincono nove partite su nove in una tournée in Spagna: era la prima volta che una squadra sudamericana arrivava in Europa.

Il modulo era lo stesso importato dagli inglesi, il 2-3-5, la cosiddetta “piramide inversa”; ma lo stile era più vicino a quello scozzese delle origini, fatto di passaggi palla a terra, con in più la fluidità tutta sudamericana. I movimenti senza palla erano la norma, e per le difese avversarie contenere la Celeste era un incubo. Tatticamente, l’Uruguay dominava la scena perché giocava come un gruppo talmente affiatato che in campo i giocatori sembravano più di undici.

Eppure in Europa nessuno li conosceva, e nessuno li temeva. Alle Olimpiadi il debutto è fissato contro la Jugoslavia, che alla vigilia manda degli osservatori a spiare gli allenamenti della Celeste. I giocatori, però, se ne accorgono e iniziano a calciare il terreno, a scontrarsi tra loro e calciare dovunque tranne che verso la porta. “Fanno tenerezza” commentano gli osservatori, “sono venuti da così lontano”. Tale è la scarsa conoscenza dell’Uruguay che nello stadio la bandiera viene issata al contrario e al posto dell’inno nazionale viene suonata una marcia brasiliana.

Novanta minuti bastano a stravolgere tutto. A fare tenerezza è la Jugoslavia, seppellita 7-0. I tremila spettatori presenti hanno assistito a una rivoluzione, hanno scoperto la nuova America del calcio.

Tre giorni dopo, al secondo turno, l’Uruguay affronta l’altra nazionale extra-europea rimasta in tabellone, gli Usa, peraltro infarcita di giocatori di origine irlandese e con cittadinanza del Vecchio continente. Il ct Burford imposta una partita di rottura, tutta difensiva, ma non evita la sconfitta: 3-0, con doppietta di Petrone e gol di Scarone.

Nei quarti la sfida è ai padroni di casa della Francia. 30 mila spettatori assistono a quella che la stampa transalpina definirà “una partita senza precedenti”. La Francia praticamente non tocca palla, l’Uruguay vince 5-1: doppietta per Scarone e Petrone e rete di Romano (Nicolas firma l’unico gol transalpino). Ma la stella che brilla più di tutte è quella di Jose Leandro Andrade, cui i giornali francesi assegnano l’azzeccatissimo soprannome di “Meraviglia Nera” capace, in quel match, di correre per 75 metri, saltando 7 avversari, prima di fornire l’assist per il quarto gol.

Dopo l’Olimpiade resterà a Parigi, diventando un artista bohemienne, il re delle notti di Pigalle, con scarpe di vernice, cappello a cilindro e un bastone con l’impugnatura d’argento. Morirà a Montevideo povero e tubercolotico.

In semifinale l’Uruguay aspetta l’Olanda, che ha in Cornelis Pijl e Gerrit Visser le stelle della squadra. È una nazionale caparbia, dal gioco fisico ma con buona tecnica, con una difesa solida e un attacco di livello assoluto. Infatti, dopo mezz’ora, l’Olanda passa con il solito Pijl. La Celeste reagisce, il portiere olandese Van del Meulen salva la porta e il risultato per tre volte, ma non può opporsi al diagonale di Cea, servito da Scarone, al 62’. Il resto è un monologo dei sudamericani. All’80’ Andrade lancia Petrone, strattonato in area: per l’arbitro è rigore, che Scarone trasforma portando la Celeste in finale.

Tra l’Uruguay e la medaglia d’oro c’è solo la Svizzera, che ha battuto 2-1 la Svezia. Gli elvetici non hanno individualità di spicco e poggiano tutto sul collettivo e sul gioco di squadra. Ma i 41 mila spettatori presenti allo Stadio Olimpico di Colombes assistono solo a un’esibizione della gioiosa macchina da guerra uruguayana che si impone 3-0: segnano Scarone al 9’, Cea al 65’ e Romano all’82’.



Le stelle della Celeste
Ma chi erano i cavalieri che fecero l’impresa? La difesa era guidata dal capitano Jose Nasazzi, terzino destro che nel metodo giocava da difensore puro. A livello di nazionale è difficile trovare un giocatore più vincente di lui. Ma a livello di club la sua carriera prosegue per lo più sotto traccia, con il Bella Vista. È con Los Papales (così chiamati per la casacca che richiama la bandiera del Vaticano) che maturano le sue doti di comando. “Il campo è un imbuto” dice spesso, “e nella bocca dell’imbuto c’è l’area” che è la sua zona di caccia preferita. Il suo fisico imponente lo rende un marcatore perfetto, il carisma con cui guida la manovra della squadra gli vale il soprannome di Gran Marisca, Gran Maresciallo. A lui il Bella Vista dedicherà il suo stadio, il Parque Olivos.

Seppur meno talentuoso di altri compagni, Jose Vidal è un elemento chiave della squadra: gioca da centromediano e si occupa di entrambe la fasi, difensiva e offensiva, con la stessa efficacia. Accanto a lui agiva “La Meraviglia Nera” Andrade, molto più di un mediano. Si spingeva spesso in avanti grazie a una tecnica sopraffina e a un elegante tocco di palla.

In attacco, Pedro Cea gioca da mezzala sinistra: giocatore simbolo del Nacional, legge bene l’azione e sfrutta l’intelligenza tattica per agire tra le linee e inserirsi per sfruttare il suo tiro potente e preciso.

Sul fronte opposto agisce Hector Scarone, uno dei più forti giocatori di sempre del Sudamerica. È il fulcro offensivo della squadra, e il soprannome di “El Mago” basta a spiegare il livello del suo talento e il contributo in termini di dribbling, assist e gol che regala alla squadra. Genialità che lo rende il miglior interprete del calcio in musica e gli vale anche il soprannome di Gardel del calcio, in riferimento al re del tango.

Ha ancora il record di gol segnati in nazionale (31 in 52 partite) e come tutti i campioni ha un carattere bizzoso e altezzoso: per questo qualcuno inizia a chiamarlo “la Borelli” (Lyda Borelli era una diva del cinema muto).

Pedro Petrone era El Artillero. Alto 183 cm, si muove con incredibile rapidità e sfodera un destro di inarrivabile potenza. Nei primi anni ‘30 arriva in Italia, alla Fiorentina. In viola segna 37 gol in 44 partite e si guadagna il titolo di giocatore più veloce della serie A: poteva correre i 100 metri in 11 secondi netti. Ma si stanca presto dell’Italia e del fascismo, e torna a Montevideo. Non ha ancora 30 anni quando la FIFA lo costringe a lasciare il calcio per non aver rispettato il contratto con la Fiorentina.

Olimpiadi, si replica
Quattro anni dopo, ad Amsterdam, le due nazionali più forti del mondo si incontrano in finale. Argentina contro Uruguay si ritrovano di fronte per la 103ma volta. Lo stadio può contenere 40 mila posti, ma arrivano 250 mila richieste. La finale si conclude 1-1, con Ferreira che nella ripresa risponde al vantaggio firmato Scarone.

Si replica tre giorni dopo. Figueroa porta la Celeste in vantaggio dopo 17 minuti. Racconta Galeano: “Piriz rubò il pallone a Tarasconi e avanzò verso l’area. Borjas lo ricevette di spalle alla porta e la diede di testa a Scarone al grido di ‘tua, Hector!’ e Scarone la colpì di prima. Il portiere argentino Bossio si lanciò in un volo d’angelo quando il pallone si era già schiantato contro la rete. La palla rimbalzò in fondo alla rete e tornò, rimbalzando lentamente, in campo. L’attaccante uruguagio Figueroa la risbattè dentro, castigandola con una gran pedata, perché uscire in quel modo era segno di cattiva educazione”.

Monti pareggia dopo 11 minuti. Ma al 73’ è “Gardel” a trascinare l’Uruguay al secondo trionfo a cinque cerchi. Gianni Brera commenta: “l’Argentina gioca a calcio con molta eleganza e immaginazione, ma la superiorità tecnica non può compensare l’abbandono della tattica. Tra le due nazionali rioplatensi, l’Argentina sono le cicale, l’uruguay le formiche”.

Formiche che, per dirla con l’orgoglioso dottor Attilio Narancio, non sono più “un punticino piccolo sulla mappa del mondo”.


Il trionfo mondiale
Montevideo prende il nome da una collina così chiamata da Magellano nel 1520. Due secoli dopo la città si sviluppa come fortificazione per evitare le infiltrazioni dei portoghesi che arrivano dal Brasile. È qui che la FIFA decide di ospitare il primo Campionato del Mondo. L’idea della manifestazione, che risale agli inizi degli anni ‘20, è stata formalizzata solo nel febbraio 1927, a Zurigo. Jules Rimet, presidente della FIFA e fautore del professionismo, si affranca così dai vincoli del dilettantismo imposti dal CIO.

L’Uruguay viene scelto perché ha vinto gli ultimi due titoli olimpici e perché nel 1930 ricorre il centenario della Costituzione.

La stampa, e soprattutto El Diario, fondato da Hector Gomez, si lancia in una campagna promozionale dell’evento. Ma qualche dubbio rimane. Anche perché il 20 ottobre 1929 muore il “caudillo” José Batlle y Ordóñez, che aveva introdotto il socialismo di stato nel 1911 e trasformato l’Uruguay nella Svizzera del Sudamerica. In questo contesto, il martedì nero della Borsa di Wall Street, distante solo quattro giorni, non può che provocare enormi sconquassi all’economia nazionale.

Ma il sogno della vittoria riesce ad allontanare la crisi. Gli stadi “presentabili” sono due: il “Pocitos”, dove gioca il Penarol (che ospiterà la partita inaugurale Francia-Messico) e il “Parque central”, la cancha del Nacional. Ma non bastano per una manifestazione di questa importanza. Si decide perciò di costruire quello che, dopo 12 mesi massacranti con gli operai al lavoro senza sosta con tre turni giornalieri di otto ore ciascuno, diventerà l’Estadio Centenario. Costato circa un milione di pesos, progettato da Juan Scasso, sorge sul Parque Batlle y Ordóñez, o Parque de los Aliados.

Le ultime rifiniture sono completate solo il 17 luglio, la notte che precede il debutto della Celeste. Prima dell’esordio, concentrati nell’hotel El Prado, gli uruguayani si sottopongono a quattro settimane di duro allenamento. Il tecnico Alberto Supicci scopre il portiere titolare e bi-campione olimpico Mazali al ritorno da una scappatella notturna. Per punizione gli toglie la maglia da titolare: lo sostituisce Ballestrero. Per il primo incontro anche Scarone, infortunato, deve dare forfait. Così il Peru, grazie al portiere Pardon, difende lo 0-0 per 75’, finché Castro riceve da Cea e lo trafigge con un diagonale da appena dentro l’area.




Al termine della partita il pubblico invade il campo. Trascinati dalla folla il guardalinee Cristophe e l’arbitro belga Langenus non riescono a trovare la via degli spogliatoi e vagano per Montevideo ancora con le divise da gioco due ore dopo la fine del match.

C’è sempre lui, Langenus, a dirigere Argentina-Cile del 22 luglio, decisiva per il passaggio del turno, quando quando l'argentino Monti, con un tackle plateale atterra il cileno Subiabre. La sua reazione scatena una rissa gigantesca che coinvolge giocatori e tifosi e costringe la polizia a intervenire. L’Albiceleste vincerà 3-1.

Il facile 4-0 sulla Romania promuove l’Uruguay alle semifinali, dove arrivano anche Argentina, Usa e Jugoslavia. Il sorteggio favorisce le due squadre sudamericane, che non hanno alcuna difficoltà a qualificarsi per la finale (vincono con lo stesso punteggio, 6-1).

La finale conferma, per la terza volta in sette anni, il dominio rioplatense sul calcio mondiale. Langenus è l’arbitro designato, ma accetta solo a due ore dal fischio d’inizio dopo aver stipulato una polizza sulla vita e aver ricevuto la garanzia dell’assistenza di almeno un centinaio di poliziotti. 20 mila tifosi argentini attraccano al porto di Montevideo nelle 48 ore prima del match. All’ingresso dello stadio, i poliziotti trovano petardi e coltelli e perfino qualche revolver nelle perquisizioni dei tifosi.

Ma c’è un altro intoppo da risolvere prima del via: quale pallone usare? Le due squadre vogliono giocare col proprio, e Langenus decide di non scontentare nessuno: il primo tempo si giocherà con quello argentino, il secondo con quello uruguayano.

L’Uruguay, anche senza Petrone fuori forma, sostituito da Castro in attacco, parte forte. La mediana è quella classica, con Andrade, Fernandez, Cea e Gestido. In difesa, però, la Celeste va un po’ in affanno a contenere Stabile, anche se a chiudere gli spazi c’è “il Maresciallo” Nasazzi.

Dopo 12’ la Celeste sfonda. Gestido per Fernandez, che apre verso Castro. Il suo taglio verso il centro attira la marcatura di Monti e Della Torre e libera lo spazio per la sovrapposizione di Scarone. “El Mago”, contrastato da due avversari, controlla e chiude il triangolo. Così “El Monco” (così chiamato perché a 13 anni perse una mano mentre lavorava come falegname, armeggiando con una sega circolare) raccoglie e vede sulla destra il movimento di Dorado: il suo diagonale è imprendibile.

Il gol subito fa montare la rabbia argentina. La Seleccion spinge a testa bassa e in 7’ pareggia. L’azione si sviluppa sull’asse Monti-Stabile-Ferreyra, il capitano mette in mezzo un “pase corto” per Peucelle che anticipa Gestido e beffa Ballestrero. L’albiceleste, però, non commette l’errore degli avversari, che hanno rallentato dopo il gol. Così, per più di venti minuti in campo si vede una sola squadra, e non sono i padroni di casa, sempre più involuti e in difficoltà. Al 37’ matura, così, il meritato sorpasso. Evaristo lancia Monti che prolunga con un pallonetto verso l’area, Nasazzi alza il braccio invocando il fuorigioco, ma l’arbitro fa giocare, Stabile arriva per primo e batte sotto la traversa. “In tutto lo stadio soffiava un vento di tristezza” scriverà un giornale di Montevideo.

Sarà per il cambio di pallone, sarà per la crisi isterica della Meraviglia Nera Andrade, che nello spogliatoio continua a gridare “Non possiamo perdere!”, sarà per la carica lanciata da Fernandez arrotolandosi le maniche a centrocampo, ma nella ripresa l’Uruguay è un’altra squadra. È Fernandez la mente di una rinascita che inizia al 57’: batte una punizione verso Castro che tocca per Scarone. “El Mago”, chiuso da Paternoster e Della Torre, riesce a disegnare un pallonetto per Cea che al volo di piatto trafigge Botasso. L’Uruguay è tornata la gioiosa macchina da guerra delle ultime due Olimpiadi e al 68’ arriva il sorpasso. Mascheroni ruba palla a Varallo e parte palla al piede; dopo una trentina di metri Monti prova a chiuderlo ma il terzino fa in tempo ad aprire per Iriarte che dai 25 metri lascia partire una sassata sotto l’incrocio.

Gli dei del pallone hanno indossato la sciarpa Celeste, e lo dimostra un minuto dopo il salvataggio sulla linea di Andrade sulla conclusione di Varallo, proprio l’uomo che ha perso palla dando il la all’azione del terzo gol dei padroni di casa. L’assalto disordinato della Seleccion non produce risultati. Così, a un minuto dalla fine del tempo regolamentare, il portiere uruguagio lancia verso Cea che mette in movimento Iriarte; l’ala sinistra salta Evaristo e Della Torre e lancia in avanti, Suarez tenta l’anticipo in scivolata ma sul pallone arriva Dorado. Dalla destra fa partire un cross su cui Castro anticipa tutti e sigilla il 4-2 finale. Langenus, che da un paio di minuti staziona vicino gli spogliatoi perché non vuole perdere il piroscafo che parte un’ora dopo la finale, fischia la fine. La prima Coppa Rimet si colora di Celeste.




Nessun commento:

Posta un commento