lunedì 29 agosto 2011

Fabrizio Mori, un cuore oltre gli ostacoli

Fabrizio Mori



Dieci barriere da 91 centimetri. Un giro di pista. Un giro della morte, in cui misurare i passi, mescolare tecnica e velocità, sprint e resistenza. Sono i 400 ostacoli, disciplina in cui l’Italia ha saputo scrivere una lunga storia di successi.

A cominciare da Luigi Facelli, ideale iniziatore della tradizione azzurra della specialità, due volte finalista olimpico, sesto ad Amsterdam ‘28 e quinto quattro anni dopo a Los Angeles. Vale la pena raccontare, brevemente, la storia e le motivazioni del pioniere dei 400 ostacoli: lo facciamo con le sue stesse parole, tratte dal Littoriale della Domenica del 17 maggio 1942.



La storia, a dire il vero, è piuttosto lunga, ed è tutta di sogni. Comincia quando avevo 14 anni e portavo sul cappello la prima medaglietta vinta in una corsa di ragazzi. Principiai a
sognare allora; ma sognavo così, senza sapere cosa sognassi: il cammino delle mie ambizioni si fermava alla cinta daziaria di Acqui. Poco dopo divenni soffiatore. Duro mestiere. Sognavo ad occhi aperti sulle bolle iridescenti di vetro liquefatto, e forse, più che i sogni, giovò, per il mio avvenire, quella tremenda ginnastica di polmoni. Indi divenni uomo. Due anni di trincea. In quella dura vita mi accorsi che il mio fisico valeva più di quello di altri. E nelle notti di sonno greve cominciai a sognare di essere campione di sport. Ma una notte ero ciclista, un’altra pugilatore, una terza maratoneta. Mai ostacoli: gli unici che conoscevo erano reticolati, fossati, buche di granata, camminamenti, e non immaginavo che si potessero mettere barriere alla libera corsa. Fu al quarto
anno di grigioverde che i miei sogni cominciarono ad avere architettura. La vittoria era stata conquistata, e nell’esercito vi era molto fervore sportivo. Ero a Taranto. “Spopolai” in tutte le corse del presidio, dai 100 ai 3000 metri, e ai campionati d’armata, a Bari, dove erano anche gli atleti tirati su dal prof. Goffredo Sorrentino, vinsi [400m, 110m ostacoli e alto]. Ai campionati nazionali militari di Roma fui [quinto] nel salto in alto. Come si vede, c’era già il presentimento: corsa e salto. Mancava soltanto l’occasione. Poi venne il congedo e tornai a casa.
Nessuno mi teneva più. Corsi e mi portai bene dagli 800 ai 3000 metri. Poi mi venne in mente il salto triplo. Mi piacevano quei passoni da gigante e quello sgambettare per aria all’ultimo salto. [Nel 1923], ai campionati nazionali di Bologna, vinsi e stabilii il primato italiano con 13.82.
[Ma nel 1922 ero tornato] al salto in alto e, sul campo della Forza e Coraggio a Milano, fui terzo. Ecco, quel giorno scoppiò la bomba. Mentre si svolgeva la finale del salto [triplo], ebbe luogo anche quella dei 400 ad ostacoli, e mi ricordo di essere rimasto incantato a vedere quei ragazzi che correvano e saltavano. Subito dopo, gli ostacoli vennero messi in mezzo al prato. Contoli, che l’indomani doveva fare i 110, ne staccò uno dal mucchio e cominciò a volarci sopra. Pareva lo dovesse buttar giù ogni volta, e invece lo sfiorava appena. Contoli era allora il campionissimo dell’atletica italiana. Ad ogni campionato italiano portava a casa cinque o sei titoli ed un paio di primati. Era anche un bravo ragazzo. Ma questo io, provincialotto a cui girava la testa in mezzo a tanti campioni, non potevo saperlo. Perciò lo avvicinai con un certo batticuore e gli chiesi qualche spiegazione. Fu molto gentile e mi disse sommariamente cosa bisognava fare. Più tardi, quando la gente sfollava e la riunione era finita, potei mettere le mani su un ostacolo e provai. Vi passai sopra e l’indomani tornai ad Acqui con gli ostacoli in testa. Dovevo rivederli l’anno dopo a Bologna, per i campionati. Allora le corse ad ostacoli erano rare, nei programmi, e nelle riunioni di provincia addirittura mosche bianche. Avevo provato qualche volta con un ostacolo che m’ero fatto alla meglio. A Bologna – correvo per l’Unione Sportiva Alessandria – avevo un programma carico.
Dovevo disputare nello stesso giorno il salto triplo ed i 1200 siepi e i 400 ostacoli. Come si vede, a me non mancava la voglia, né ai miei dirigenti la fantasia. Peccato che ci fossimo dimenticati di chiedere, durante tutta l’annata, quanti fossero gli ostacoli nella gara dei 400. Mi era venuto in mente ad Alessandria, il giorno prima della partenza; ma ero incerto se fossero otto o dodici. Conclusi, montando in treno, che avrei saltato quelli che mi si fossero parati prima del traguardo. A Bologna seppi che erano dieci; ma quando fui alla partenza per la mia batteria, me l’ero già scordato. Tuttavia la vinsi in 59.2/5, ad appena un quinto dal primato italiano, e l’indomani fui secondo in finale. Lo stesso anno, ad Alessandria, uguagliai il primato italiano. E da allora in poi, fra una soffiata di vetro e l’altra, continuai a sgretolare diversi di questi famosi quinti e decimi di secondo, sino ad arrivare a quel limite [il primato europeo del 1929] che la modestia mi vieta di ricordare, ma l’orgoglio mi fa esser certo che gli sportivi non hanno dimenticato.

Venne poi l’epoca di Ottavio Missoni, proprio il Missoni stilista, che coltiva la passione per la corsa tra Dubrovnik, dove è nato nel 1921, Zara, Trieste e Milano. Stabilisce il record italiano under16 sui 400 metri, poi il primato europeo juniores. È campione mondiale studentesco a Vienna, ma lo scoppio della guerra (durante la quale viene fatto prigioniero dagli inglesi sul fronte africano) frena la sua carriera. Nel 1948 Missoni è a Londra, per le Olimpiadi della rinascita, dopo la tragedia del secondo conflitto mondiale. 
Ottavio già pensava a diffondere il marchio della propria casa di moda, e a tenere allegra la compagnia con qualche cassa di buon liquore, insieme ai ragazzi delle squadre italiane di pallacanestro e pallanuoto. Torna in Italia con un sesto posto e con una fidanzata che diventerà sua moglie.

Quindi, ecco Armando Filuput, campione europeo nel 1950, Salvatore Morale che conquistò il primato continentale a Belgrado nel 1962 con il record del mondo, 49”2, e avrebbe poi trovato conferma con il bronzo olimpico di Tokyo, due anni dopo. In quella finale c’era anche Roberto Frinolli, che nel 1966 si sarebbe laureato campione d’Europa a Budapest. In Messico fa sognare e piangere tutta Italia: imposta una corsa folle, per 300 metri vola come il vento ma negli ultimi 100 crolla e chiude ultimo.

È lui il maestro di Fabrizio Mori, allievo che più diverso non si può rispetto al maestro in quanto a tattica di gara e distribuzione dello sforzo. Toscano tanto simpatico fuori dal campo quanto cattivo e ruvido tra le dieci barriere, è lui l’ottavo oro nella storia dell’atletica azzurra ai Campionati del Mondo.

La sua carriera internazionale parte agli inizi degli anni Novanta: eliminato in semifinale nelle prime tre partecipazioni ai mondiali (Tokyo ‘91, Stoccarda ‘93, Goteborg ‘95), nel 1997 ad Atene sfiora il bronzo. E’ il 4 agosto 1997, il giorno del centenario della Federazione italiana di atletica leggera.

Chiude quarto, con il nuovo primato italiano di 48”05. Mori non stravolge la sua distribuzione dello sforzo: 14 passi nel saltare i primi sette ostacoli, poi l’inizio dello sprint. A quel punto era settimo: prima supera il giamaicano Morgan, poi il russo Mashchenko, quindi negli ultimi dieci metri beffa il grande Matete. Migliora di sei centesimi il record nazionale che aveva ritoccato 24 ore prima in semifinale, ma non basta per il podio. Vince il francese Diagana, strepitoso nei primi 350 metri, davanti al sudafricano ventenne Herbert Lievvelie che brucia al fotofinish, per soli 2 centesimi, il favorito della vigilia, l’americano Bronson, solo terzo in 47”88.

Dei protagonisti di Atene, in finale a Siviglia saranno al via solo in due: Mori e Diagana. Lievvelie non si presenta, Mashchenko nemmeno, Robson è sospeso, Rawlinson infortunato, Taylor si fa eliminare in batteria, Matete esce in semifinale.

Mori arriva a Siviglia dopo il bronzo europeo di Budapest, che arriva dopo una stagione travagliata per una prefrattura allo scafoide e con un tempo non straordinario (48”72). In vista del mondiale di Spagna, cambia strategia di preparazione rispetto a 12 mesi prima. “Credo che gareggiare poco nel periodo premondiale sia stato utile” commenta, “ho fatto una scelta diversa dal passato: tanto allenamento e gare ridotte al minimo, per esempio soltanto i mondiali militari a Zagabria, in agosto. Una scelta che ha pagato, visto che mi sono sentito crescere gara dopo gara”.

In semifinale, Mori è splendido: chiude secondo in 48”25 dietro al francese Diagana, che vince con un 48”18 che, dice Mori, “fa male”. Ma fa più male l’annuncio della Iaaf: l’azzurro viene squalificato per aver calpestato la riga bianca della propria corsia (regola 141.2 del regolamento tecnico) tra il quinto e il sesto ostacolo, un passaggio che spesso gli ha causato qualche problema.

L’infrazione, però, non gli porta alcun vantaggio, né disturba Diagana, che era in corsia 3 e gli stava davanti di mezzo metro. I dirigenti azzurri presentano un reclamo, accompagnato dalle immagini registrate grazie a una telecamera personalizzata, che viene accolto alle 23. Il vecchio Ter Ovanesian, che aveva respinto il ricorso azzurro dopo la gara di salto in lungo (l’argento amaro di Fiona May dietro la spagnola Montalvo che, secondo i tecnici azzurri, avrebbe commesso un nullo, non riconosciuto, nel salto con cui conquista la vittoria), “salva” Fabrizio Mori: l’azzurro è in finale.

Non mi era mai capitato di sentirmi a mio agio così presto” commenta Mori, fiducioso in vista della gara che può valere una medaglia mondiale. L’azzurro ha all’esterno i due rivali principali, Januszewski e Diagana ma non si lascia trascinare dalla loro forsennata interpretazione del primo mezzo giro di pista. La sua rimonta inizia ai 250 metri; quando inizia il rettilineo finale Mori è terzo. Affianca Diagana sull’ultimo ostacolo e lo brucia sul traguardo chiudendo in 47”72, ritoccando di 7 centesimi il primato italiano: un tempo che gli avrebbe permesso di arrivare secondo ai Giochi di Atlanta e ai Mondiali di Atene.

Mori è raggiante ai microfoni dopo la gara: «Dedico questa vittoria a Roberto Frinolli, il mio tecnico, e ai massaggiatori Parazza e Cotti. Davanti ai blocchi improvvisamente non mi sono sentito tanto sicuro, e sino al quinto-sesto ostacolo ci sono arrivato con la testa. Poi, ai 300 metri stavo così bene che avrei morso gli ostacoli. Quando sono sbucato sulla retta finale mi sono detto che solo una montagna avrebbe potuto fermarmi. Questo non è successo, e ora voglio godermi la vittoria. E' dall'altro giorno, dopo il brivido della semifinale col giallo della squalifica poi rientrata, che sognavo gli ultimi 120 metri».
«Sono stato molto bravo ad arrivare a questi Mondiali nella massima forma. Tutti questi giorni lontano dalle gare hanno dimostrato che si può vincere anche così. Ho avuto ragione. Le sensazioni provate erano le stesse di quando ho fatto il record a Montecarlo due anni fa. Per questo voglio ringraziare anche mio fratello Massimo. Ci siamo sentiti per telefono. Lui è un estroverso che riesce sempre a caricarmi».
Roberto Frinolli prova a spiegare la maturazione atletica di Mori: «Sino al '95 si è allenato senza rendersi conto delle sue potenzialità, poi ha fatto un grosso salto di qualità. E' stata una scelta realistica e determinata. Fabrizio è un atleta serio, che fa tutto con grande professionalità. Chi dobbiamo ringraziare per tutto questo? Principalmente il padre e la madre che hanno fatto un buon lavoro, poi tutto l'ambiente familiare, l'allenatore che lo ha scoperto a Livorno. Paolo Falleni, senza dimenticare Lanaro, che lo ha seguito nelle Fiamme Gialle. Possiamo affermare che è un ragazzo fortunato: nella sua vita ha sempre incontrato gente di buon senso».

Ma a Siviglia incontra anche gente che prova a togliergli l’oro appena conquistato. Francia, Svizzera e Brasile presentano ricorso per salto di corsia. Fosse stato accolto, Mori avrebbe perso la medaglia, che sarebbe passata a Diagana senza appello. Il regolamento infatti prevede il contro-ricorso solo quando la prima decisione viene presa dai giudici di gara, come accaduto in semifinale.

La Francia ha presentato, oltre al ricorso, anche una videocassetta incentrata sulla sola gara di Mori: un' operazione, insomma, da cecchini. L' Italia ha risposto imponendo al jury anche la visione di una videocassetta filmata dalla Rai: non si evidenziavano particolari scorrettezze dell' ostacolista. La giuria d' appello (formata da Ljungqvist, Bailey, Takac e Hoffman) ha discusso a lungo, sfiorando la frattura: decisamente schierata per la squalifica la canadese Abby Hoffman, innocentisti gli altri. Takac: "Il ricorso francese? Troppo generico". Ljungqvist: "Un caso chiarissimo: Mori non meritava sanzioni".

Dopo la finale Mori, bianco capace di vincere in una disciplina dominata da campioni coloured, che preferiva vedere il tedesco Harald Schmitt che il più forte di sempre, Edwin Moses. Ma perché ha scelto i 400 ostacoli, gli chiedono. “È capitato. Okay, lo dico: sono piuttosto bassino per i 110, anzi, troppo basso. In questa specialità le barriere sembrano montagne. Ho passato l' infanzia e l' adolescenza sui campi d' atletica. Vengo da una famiglia di sportivi, è grazie a papà e mamma se sono qui”. Campioni si diventa? “Ci dev’ essere, inevitabilmente, un certo talento di base. Poi il resto lo metti con l’allenamento. Nel ‘95 ho deciso che dovevo cambiare, fare le cose più seriamente. Ho passato l' inverno facendo allenamenti durissimi. La sera, a casa, quasi non mi muovevo per i dolori e la fatica. Dicevo a Frinolli, il mio allenatore: Roberto, vale la pena?”. Siviglia gli ha dato la risposta.


Nessun commento:

Posta un commento