giovedì 2 agosto 2012

Dal Sudafrica a Jesi: la geografia della scherma italiana


L’ombelico della scherma mondiale è un triangolo di case largo non più di 500 metri, nella parrocchia San Francesco a Jesi. È lo spazio che passa tra le case di Stefano Cerioni, Giovanna Trillini e Valentina Vezzali. La pioggia di titoli e di medaglie che si è generata nasce da lontano. E non è una metafora. Nasce in un campo di prigionia inglese in Sudafrica: a Zonderwater, che significa senz’acqua.

Lì viene internato Ezio Triccoli, jesino, richiamato alle armi nel maggio 1940, arruolato nel 26° reggimento di Artiglieria e fatto prigioniero il 10 dicembre a Sidi El Barrani. Il comandante generale del campo, il colonnello Hendrik Fredrik Prisloo, unisce alla disciplina un grande rispetto per i prigionieri, che costruiscono ventidue teatri, edifici in muratura, trenta chilometri di strade, quindici scuole, e vengono stimolati a dedicarsi allo sport. Nel campo vengono organizzati incontri di pugilato, un campionato di calcio, gare di ciclismo, di atletica, e di scherma.

Triccoli è un uomo istintivo, che si fabbrica da solo fioretti, spade e maschere protettive e riesce a portarle in Italia in una valigia costruita con i barattoli vuoti di marmellata. Ha sperimentato posizioni rivoluzionarie, come la foettata, la frustata con il fioretto sulla spalla dell’avversario: con questo colpo Cerioni, oggi tecnico della nazionale, che ha iniziato a otto anni perché sua nonna Palmira era amica di Triccoli, avrebbe vinto l’oro olimpico a Seoul.



Nel gennaio 1945 viene nominato istruttore ad honorem del Nucleo Schermistico Nedo Nadi dei Campi 9 e 10. Pochi giorni dopo scrive una lettera al fratello Elvio, mai consegnata, e per un caso del destino ritrovata da una sua parente su una bancarella di Ancona nel 2001. “Mi raccomando di rimanere sempre in gamba e sveglio, di essere sempre combattivo nella vita e di non farti sopraffare: solo così si può sperare di riuscire”.

Consigli che ha trasferito a tutti gli allievi passati per la sua palestra, per il Gruppo schermistico di Jesi, aperto nel 1947.Un gruppo che diventa l’ombelico del mondo grazie alla figlia di una sua nipote che arriva in palestra per rimettere a posto una spalla rotta: Giovanna Trillini.

È con lei che inizia la stagione magica del fioretto femminile. A Barcellona ‘92 Giovanna arriva dopo una delicata operazione al ginocchio e si presenta con un tutore cui ha dato anche un soprannome, “Don Joy”. “Sì , Don Joy e’… il mio amico del cuore!” ha raccontato a Cesare Fiumi del Corriere della Sera la sera della finale individuale vinta sulla cinese Wang. “E' il nome del tutore che parte dalla coscia e arriva fino al polpaccio. Le due rotelline mi tengono stretto il legamento crociato del ginocchio. Don Joy lo sostituisce benissimo. Pesa 300 grammi, a volte capita di toglierselo e buttarlo via con rabbia. Ne avverti il disagio. E lui, come tutti i buoni amici, non protesta”

Ha paura, Giovanna. “Avevo disputato solo due gare dopo il rientro e mi ero sempre fermata all' eliminazione diretta. Alla fine ero stanchissima. Ma prima dell' ultima stoccata, dopo 18 ore in pedana, mi è sembrato di ritrovare di colpo tutte le forze. Avevo tirato maluccio nei primi turni anche al mondiale di Budapest. Per questo non ero preoccupata. Certo, quando la Wang mi ha raggiunto sul tre a tre, a sette secondi dalla fine la sensazione non è stata piacevole. Guardavo il maestro Tomassini, e i segni di Stefano Cerioni. Sapevo che dovevo stare calma”.

A questo punto non ci resta che rivederla, quella splendida finale.


Nessun commento:

Posta un commento